Donald Trump eletto Presidente degli Stati Uniti, e Regno Unito fuori dall’Unione Europea. Nell’anno di questi due eventi shock nel panorama politico internazionale, e della “post-verità” eletta a parola dell’anno, il fenomeno delle bufale in rete ha catalizzato moltissima attenzione. Molti commentatori ed analisti le hanno ritenute un fattore determinante nella deriva emotiva o populista assunta da larghe fasce di elettorato. BuzzFeed, ad esempio, ha raccontato con un dettagliato reportage la fabbrica di notizie false pro-Trump proveniente da siti dell’Est-Europa, che ha scatenato un vivo dibattito negli USA nei confronti di Facebook e Google in particolare, colpevoli di non limitare adeguatamente le bufale e di aver quindi in qualche modo facilitato la vittoria del candidato repubblicano.
In Italia il tema ha avuto la sua forte eco: il presidente dell’antitrust Pitruzzella è intervenuto sul Financial Times, sostenendo la necessità di un’autorità europea che controlli le bufale online, e provveda a rimuoverle e a sanzionarne gli autori. La Presidente della Camera Laura Boldrini ha lanciato un appello contro le bufale, firmato e sostenuto da numerosi personaggi famosi. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando si è accodato alla richiesta di controllo sulle “post-verità” da parte delle piattaforme social. C’è persino una proposta di legge attualmente presentata al Senato allo scopo di combattere le “fake news”.
Il tema è indubbiamente serio: diffondere bufale sfruttando i meccanismi virali dei social, e la disattenzione (o peggio la voglia di leggere cose che appaghino e confermino le nostre aspettative e frustrazioni, anche se non sono vere) di larga parte degli utenti è facile come mai lo era stato prima. E con le bufale si possono montare campagne di odio, rovinare vite, forse anche influenzare le elezioni, anche se ancora non c’è a tal proposito alcuna prova.
Ma davvero è questo il principale pericolo per “il futuro della nostra democrazia”, per citare Orlando, che viene dal mondo digitale, a cui dedicare così tanta attenzione e tante energie? Perché, ad esempio, concentrarsi solo sulle bufale online? Come hanno ricordato Alessandro Gilioli, Paolo Attivissimo, Fabio Chiusi, Arianna Ciccone e molti altri, le notizie più o meno false, fabbricate più o meno ad arte, esistono e sono esistite da sempre anche sui media tradizionali. Non sappiamo ancora se l’anno scorso la pioggia di bufale ha davvero influenzato in modo significativo le elezioni negli USA, ma di sicuro quindici anni fa una sola bufala sulle armi di distruzione di massa in Iraq, confezionata ad arte dal servizi segreti italiani, fu fondamentale per far scoppiare una guerra sanguinosa. Insomma, non ci sembra un problema né nuovo, né specifico dell’universo digitale, e mettere in piedi meccanismi di censura rivolti solo ad alcuni produttori di bufale sarebbe insensato, ammesso che un meccanismo di censura possa mai avere senso in generale.
Certo che con la rete la quantità di bufale è aumentata in modo esponenziale, e si è creata una mini-industria di siti bufalari acchiappa-click che al contrario dei media tradizionali riescono a proteggersi dall’essere davvero responsabili di ciò che scrivono. Ma d’altro canto oggi è facilissimo, per qualunque utente, non solo incappare nelle bufale, ma anche andare a cercare gli articoli di verifica, che ottimi siti antibufale (o debunker, nel gergo della rete) producono per ogni singola notizia falsa virale. Bastano pochi secondi, e lo può fare chiunque, mentre una volta servivano ben altri sforzi e risorse. Ciò che serve è solo un po’ più di formazione per ridurre il diffuso analfabetismo digitale, che ancora non consente a molti utenti di distinguere le fonti e la credibilità di ciò che leggono su un unico e apparentemente indistinguibile calderone sociale. Magari sarebbe d’aiuto sviluppare dei meccanismi tecnici antibufale che funzionino in modo simile ai software antivirus o antimalware, come suggerito sempre da Paolo Attivissimo, ma al di là degli aspetti tecnici basterà probabilmente solo qualche altro anno di rodaggio affinché la gran parte degli utenti imparino la grammatica di base dei nuovi mezzi da cui attingono informazione, per poterne fruire con consapevolezza.
Mentre gran parte della discussione pubblica si concentra insomma sulla denuncia di presunti passi indietro fatti con l’informazione digitale, e l’informazione social in particolare, a noi sembra che in realtà stiamo assistendo a decisi passi avanti rispetto all’informazione tradizionale sotto il profilo della della veridicità e verificabilità delle notizie. Ciò che ci sembra paradossale invece è che l’attenzione pubblica stia sostanzialmente ignorando i passi indietro macroscopici ed inquietanti che con l’informazione social stiamo vivendo sotto il profilo della selezione dei fatti e delle opinioni rilevanti, che hanno ben poco a che fare con i piccoli siti bufalari acchiappa-click, e sono invece sistemici e globali.
La gran parte dei commentatori, politici ed analisti approcciano Facebook e Google trattandole come delle normali media company. Li interpretano cioè come interpretavano gli editori dei giornali o delle TV. Per questo danno in qualche modo per scontato che i nuovi monopolisti digitali selezionino le notizie, e si limitano a chiedere a Zuckerberg o chi per lui di assumersi la responsabilità editoriale dei contenuti che veicola e dotarsi di meccanismi che possano marcare il vero dal falso, come se quella fosse la principale minaccia alla salute delle nostre democrazie. Ma Facebook e Google non producono contenuti, sono piuttosto canali di distribuzione di informazione prodotta da altri (in parte rilevante dagli utenti stessi, che lo fanno gratuitamente). Non sono l’editore del giornale insomma, sono piuttosto il furgone che porta il giornale in edicola o a casa degli abbonati. Con la differenza sostanziale, rispetto alle reti di distribuzione tradizionali, che nell’universo digitale sono solo un paio i furgoni che distribuiscono i giornali a qualche miliardo di utenti in tutto il mondo; che quei furgoni definiscono da soli le regole per cui un giornale può essere incluso o escluso dal loro carico; che controllano da soli l’applicazione di quelle regole; che decidono sempre da soli, secondo logiche proprietarie e private, quali giornali portare ad ogni abbonato, cioè qual è il tipo di contenuto che debba interessare un dato utente.
Qual è l’effetto che l’algoritmo di selezione dei contenuti di Facebook può avere, se Facebook vuole, sulla scelta dei temi di attualità che hanno maggiore risalto? E qual è l’effetto sulla scelta delle opinioni e dei commenti che diventano più facilmente virali? In modo simile, qual è l’effetto sulla diffusione delle notizie che Google può avere, se lo vuole, modificando un po’ l’algoritmo che decide quale articolo appare fra i primi risultati di una ricerca, e quale invece viene relegato più in basso? Se Facebook o Google volessero influenzare le elezioni di una qualunque democrazia avanzata del pianeta non avrebbero bisogno di assoldare dei produttori di bufale in Macedonia: gli basterebbe semplicemente cominciare ad assegnare pesi diversi ai temi da spingere e a quelli da nascondere, alle opinioni da mettere in risalto e a quelle da sminuire. Allo stato attuale, hanno il potere e gli strumenti per farlo, senza dover dare spiegazioni o anche solo comunicazioni a nessuno.
In altre parole, sulla veridicità dei fatti che leggiamo in rete abbiamo un controllo, come utenti e lettori, che non avevamo mai raggiunto in passato: basta imparare l’abc degli strumenti online, per capire come orientarsi fra bufale e notizie vere. Invece sul modo in cui i pochi giganti dell’economia digitale scelgono e controllano le notizie e le opinioni rilevanti a cui accediamo non abbiamo non solo alcun controllo, ma neanche della semplice trasparenza. Gli algoritmi sono gelosamente custoditi, e sono sviluppati per i legittimi obiettivi privati delle aziende che li hanno sviluppati. E nessuna istituzione democratica al mondo sembra avere leve o influenza verso quei meccanismi: stiamo vivendo i primi passi di una nuova rivoluzione industriale, in cui un manipolo di corporation della Silicon Valley si ritrovano a gestire un potere enorme e ancora molto poco compreso, al di sopra di stati e governi nazionali. Se ad esempio la Presidente della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana ritiene legittimamente che si debba fare qualcosa per contrastare la diffusione dell’odio online, può al massimo scrivere una lettera all’amministratore delegato di Facebook, padrone e gestore di un’infrastruttura da cui attingono quotidianamente informazione più di un miliardo di persone, e chiedergli gentilmente di considerare la questione. Il contenuto della lettera della Boldrini si può e si deve discutere (e magari lo faremo in un post dedicato), ma l’aspetto che troviamo inquietante è che Zuckerberg, almeno finora, non le ha neanche risposto.
Forse, se ci interessa la salute delle nostre democrazie ed il bilanciamento dei poteri nell’era digitale, abbiamo qualcosa di più urgente e significativo di cui discutere che le bufale del “Corriere del Mattino”, de “il Giomale” o di “Libero Giornale”.