L’entusiasmo, l’ammirazione e l’attenzione crescente verso le “macchine che autoapprendono” e l’automazione del lavoro in generale ci sta rapidamente portando verso scenari in cui il lavoro umano sembra destinato a scomparire, e a perdere il suo valore, quasi invisibile di fronte agli algoritmi automatici, all’acquisto di merci e servizi online e alle numerose attività in cui ci interfacciamo ormai con delle macchine. Ad alimentare questa tendenza sono i poderosi sviluppi dell’intelligenza artificiale, le formidabili previsioni sull’automazione del lavoro e il linguaggio con cui abitualmente ci riferiamo alle infrastrutture e tecnologie digitali (“l’internet” o “l’algoritmo”), quasi fossero forze autonome e spontanee.
Ma stiamo davvero assistendo alla scomparsa del lavoro?
Anche se trascurassimo la montagna di lavoro che è incorporata nei dispositivi digitali molto meno “leggeri” e “immateriali” di quanto siamo soliti immaginare, basti pensare all’estrazione e al reperimento delle risorse, alle industrie che assemblano i dispositivi fissi e mobili come la FoxConn, ai cavi sottomarini, alle server farm, resterebbe comunque da analizzare tutto il lavoro cognitivo e intellettuale relativo alle tecnologie dell’informazione.
Infatti proprio l’impalpabile algoritmo ha bisogno di lavoro umano, che non è solo il lavoro altamente specializzato dei pochi e super retribuiti ingegneri informatici. Possiamo citare almeno due esempi:
1- Google si è affidata ai cosiddetti “lavoratori dei dati” (anche definiti “quality raters”) per allenare gli algoritmi. Sono contrattisti che lavorano da casa per classificare le pagine, valutandone la qualità del contenuto informativo. L’algoritmo così “impara” incorporando queste valutazioni. Esiste un vero e proprio esercito di lavoratori digitali che guidano la macchina nell’apprendimento: trascrivendo clip audio, moderando i commenti, accompagnando gli algoritmi nel riconoscimento di indicatori che stanno fuori dall’automazione, affinandone l’accuratezza.
2- Amazon Mechanical Turk coinvolge circa mezzo milione di lavoratori. Esso consiste in una piattaforma dove le aziende pubblicano annunci per micro-lavori definiti “human intelligence tasks”, che consistono nel trascrivere codici, classificare contenuti, registrare degli audiomessaggi, nominare gli oggetti presenti in un’immagine per facilitarne la ricerca, riconoscere l’ironia nei contenuti digitali, identificare i doppioni nei cataloghi, tradurre frasi da una lingua all’altra, classificare l’accuratezza dei risultati di un motore di ricerca. Tutte operazioni che l’algoritmo non è in grado (per ora) di realizzare.
Le condizioni di questi lavoratori non rispondono a nessun tipo di contratto, non c’è un compenso minimo orario, l’azienda non versa tasse per garantirsi questa prestazione, il lavoro è spesso monotono e ripetitivo, oltre che molto poco redditizio (secondo The Nation il guadagno medio è intorno ai 2$ l’ora). Nonostante ciò, questo lavoro è estremamente competitivo: i Turks, infatti, sono identificati con la loro performance, ovvero la loro velocità, il numero di task che hanno svolto e la valutazione di chi fruisce della loro prestazione; infine i lavoratori devono riportare il guadagno come reddito da lavoro autonomo, anche se si tratta, di fatto, di lavoro subordinato; sono queste le caratteristiche del “crowd work” (non esiste solo la piattaforma creata da Amazon, ma anche CrowdFlower, Clickworker, CloudCrowd), un’economia cioè che si avvale di una forza lavoro diffusa e frammentata, sfruttando l’elusione fiscale per aumentare i profitti.
Questi elementi emergono anche in molti altri settori che la “gig economy” copre. Letteralmente essa è l’economia dei lavoretti, ovvero piattaforme digitali che permettono di far incontrare domanda e offerta in modo veloce e agile (senza contratti, senza oneri per le aziende…) e che richiedono un lavoro cottimizzato, “on demand” e non una prestazione convenzionale. Questo tipo di economia sfugge alle categorie tradizionali, rendendo sbiadita la distinzione tra tempo lavorativo e tempo libero, poiché permette di mettere a reddito praticamente di tutto: la nostra auto con Uber, la nostra casa con Air BnB, il nostro tempo con Taskhunters o Taskrabbit, la nostra bicicletta con Foodora. Questo consente a moltissime persone di procurarsi un’integrazione economica per rispondere alla precarizzazone e recrudescenza del mondo del lavoro tradizionale.
Qui è necessario chiarire che questo tipo di economia, spesso descritta come sharing economy, non risponde assolutamente alla definizione di “economia della condivisione”, poiché si tratta semplicemente di comunissimo lavoro salariato, dove il profitto è accentrato da chi possiede la piattaforma, con la differenza che mentre il prezzo è deciso dal datore di lavoro o dal sistema, il rischio, spesso, ricade sui proprietari dell’auto nel caso di Uber o sui proprietari della bicicletta e dell’attrezzatura nel caso di Foodora.
Con la retorica della sharing economy, si diffonde l’idea per cui non esisterebbero più datori di lavoro e lavoratori, ma saremmo tutti produttori-consumatori (prosumers), in un mondo in cui nessuno apparentemente lavora. In realtà siamo di fronte a scenari in cui chi realizza una prestazione non ottiene il riconoscimento dei diritti di un rapporto di lavoro e se ne assume completamente e interamente i rischi economici e legali. I nuovi modelli di business concepiti dai giganti della Silicon Valley, che tanta dirompente innovazione stanno portando ai modelli di consumo, sul piano del lavoro ripropongono insomma dei vecchissimi modelli di sfruttamento, parcellizzazione e sottrazione di dignità e diritti. Più che verso un mondo senza lavoro, per ora ci sembra che stiamo andando verso un mondo in cui il lavoro ci sarà ancora, ma sarà peggiore e garantirà a malapena la sopravvivenza, mentre pochi grandi attori del mercato digitale accentrano gran parte dei profitti.